Quando parla di teatro, Daniela Mangiacavallo dell’Associazione Baccanica non usa mai parole “chiuse”.
Non dice mai “spettacolo”, “copione”, “forma”.
Per lei il teatro è un organismo vivo, un respiro che si fa strada tra i corpi e le storie di chi lo attraversa.
E forse è proprio per questo che Abiti RiBelli l’ha trovata, grazie a un filo sottile che parte dall’UIEPE, passa da Aurelia Carrubba e arriva a Monica Garraffa dell’Arte di Crescere. A volte gli incontri giusti accadono così: per sintonie invisibili.
Daniela lavora da sempre dove l’arte brucia di più: nei luoghi fragili, nei luoghi veri.
Ha diretto detenuti, donne, non-attori.
Dice che più una persona “pensa”, meno è autentica. Che la testa confeziona, ma il cuore — quello sì — crea.
Lei cerca l’autenticità, l’energia altra che abita la vita prima ancora che il teatro.

Dal 9 dicembre sono cominciate le prove. Senza che esistesse ancora nulla.
Nessuna partitura, nessuna idea precotta, nessuna trama.
E a lei non fa paura.
Anzi: è proprio questo il punto.
Prima ha conosciuto le donne.
Ne ha sentito l’energia.
Ha capito quanto volessero mettersi in gioco, quanto fossero disposte a farsi attraversare.
E solo lì, tra loro, è nato il “cosa fare”. Naturalmente.
Qualche scintilla c’è già:
il bianco dell’abito da sposa come tela vergine da cui tutto può prendere forma.
La ribellione come re-azione viva, viscerale.
E una ricerca che l’ha accompagnata già l’anno scorso: quella sul Dis-Incanto, su ciò che rompe, che spezza, che ricompone.
“C’è sempre un motore nascosto”, dice.
Si è partito dai ricordi, ma non tutto finirà in scena: solo ciò che pulsa davvero.

Perché Abiti RiBelli?
“Perché è una massa”, risponde sorridendo.
Un termine che per lei è un campo semantico infinito: moltitudine, gruppo, energia collettiva.
Corpi, storie e caratteri diversi che si muovono insieme generando qualcosa di nuovo.
Quando le chiedo di Palermo e dello Sperone, si illumina.
“Palermo ha un bisogno urgente di unire ciò che è sparso: culture, personalità, periferie.”
Al primo incontro si è commossa nel vedere donne dello Zen e donne dello Sperone nello stesso spazio.
Nord e sud della città che finalmente si guardano, che si toccano, che si riconoscono.
Lo Sperone, poi, per lei è un suolo fertile. Non lo conosceva ma si è stupita delle serrande che si alzano per capire cosa sta succedendo, la curiosità che diventa partecipazione. Un teatro che accade nel mentre, che non si lascia chiudere in una sala.
Per conoscerle meglio ha dato loro il tema del Mito: non quello greco, ma un mito personale, una figura simbolica in cui riconoscersi. Alcune le hanno già inviato una storia.
Forse si partirà da lì: da una maglia invisibile che tiene insieme chi recita e chi guarda.
E se io fossi il tuo mecenate?
Le ho chiesto di convincermi a finanziare lo spettacolo.
Ha risposto così:
“Sarà un momento intimo.
Anche lo spettatore vivrà la propria ribellione.
Si troverà davanti a uno specchio: dovrà guardarsi, riconoscersi, scegliere se rimanere o cambiare.”
Non sarà un teatro da guardare.
Sarà un teatro da attraversare.
Interventi dalla platea, dalle gallerie.
Un movimento collettivo.
Un rito che riguarda tutti.
Perché la ribellione — quella vera — non si recita.
Si vive.
Il contenuto che stai leggendo fa parte del progetto Abiti RiBelli, iniziativa solidale dell’associazione L’Arte di Crescere ODV che valorizza oltre 100 abiti da sposa per finanziare la prima area fitness pubblica e gratuita del quartiere Sperone a Palermo.
Puoi contribuire:
👉 – partecipando all’asta online degli abiti da sposa, attiva dal 6 dicembre al 6 gennaio,
👉 – partecipando allo spettacolo teatrale al Teatro Biondo, il 23 dicembre alle 19:00


